La Storia di Carlo – Capitolo Due

Ricordo, per fare un esempio, un momento in cui mi trovavo sulla terrazza di una costruzione, nelle palazzine adiacenti c’erano tante persone che mi vedevano, alcuni li conoscevo. Io stavo per morire, non so di che, nessuno poteva però aiutarmi, e per salvarmi dovevo assolutamente salire su un ascensore che avevo di fronte che, però, non arrivava mai. Dall’altra parte del palazzo vedevo che un signore continuava a chiamare quell’ascensore, e la tensione saliva sempre più, mi sentivo impotente. Poi, non so come, mi sono rivisto invece salvo, con amici e familiari intorno a me. Qualche nesso con una giornata fatidica, mi si dice, c’è; la giornata più difficile, la vedremo poi, la giornata in cui sono praticamente morto, almeno per un po’…

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Tanti e tanti sogni che, nei primi giorni del “risveglio”, faticavo a discernere dalla realtà. Ero convinto che tante situazioni effettivamente ed obiettivamente assurde si fossero davvero verificate.

Ma torniamo un pochino indietro, ai fatti.

Al Policlinico, dopo una prima visita nel reparto di “Infettivologia”, verso sera ebbi una forte crisi , aggravata da “flutter” cardiaco (grosso modo tachicardia), venni intubato, trasferito in terapia intensiva ed ebbe inizio la prima battaglia al virus.

In questa fase si resero necessarie frequenti cicli di pronazione e la somministrazione di potenti antibiotici per combattere una infezione batterica che mi aveva a sua volta aggredito i polmoni. La “pronazione” è una tecnica adottata per migliorare l’ossigenazione in pazienti con grave insufficienza respiratoria, per “reclutare zone dei polmoni”; il processo, per la sua complessità, deve essere eseguito da un medico anestesista, coadiuvato da più collaboratori, basti pensare a tutti i vari tubi e cannette che avevo collegati.

Le mie condizioni denunciarono un apprezzabile ma lento miglioramento solo con la somministrazione, dopo altri tentativi vani, di un nuovo potente antivirale. Nel tempo di un paio di settimane, il virus se ne andò ma la situazione rimase incerta a causa delle sovrainfezioni batteriche a cui il covid aveva aperto la strada e che mi hanno accompagnato a lungo…fatto sta che verso fine maggio, dopo parecchi tamponi negativi, lasciai il reparto terapia intensiva covid…fui l’ultimo e dopo di me venne chiuso.

Tuttavia, l’alternarsi di lievi miglioramenti, subito vanificati da repentine ricadute, rimase una costante della mia lunga degenza.

E questa altalena di situazioni ha rappresentato forse l’aspetto più angosciante, più sfiancante per quanti hanno vissuto giorno dopo giorno accanto al mio letto di terapia intensiva generale quelle giornate senza fine. Un vero incubo.

Mia moglie, in questo periodo e durante l’intera mia permanenza in ospedale, accendeva ogni sera un candela, un simbolo di speranza, una preghiera, un modo per indicarmi la strada del ritorno…

Il giorno 6 di giugno fu il peggiore. Il Medico Anestesista chiamo’ mia moglie, perché la situazione era precipitata e le speranze di salvezza si erano ridotte al lumicino. In breve tempo, mia moglie, mio figlio e i parenti più stretti giunsero in reparto, in disperata attesa di aggiornamenti…mio figlio non mi aveva ancora visto dal 23 aprile…

Le funzioni respiratorie erano ormai inibite e subentrò un arresto cardiaco che pareva destinato a decretare la fine della guerra.

Perché di guerra si trattò e solo (come definirle ?) l’encomiabile professionalità, la caparbietà, la straordinaria bravura del Medico di cui sopra, che aveva tutte le intenzioni di non mollare fino alla fine, evitarono il peggio.

Forse quel sogno di cui scrivevo prima trae origine da questa giornata, anche perché in effetti venni trasportato in ascensore in sala “TAC” per l’esame relativo. Ovviamente, tutto quanto accadde in quella giornata non posso assolutamente averlo vissuto da cosciente, eppure quanta realtà in quel sogno…